Popolo di poeti, di santi e di navigatori, gli italiani. Fico, no?

È un mantra che ripetiamo sempre volentieri, quando parliamo del nostro Paese. Non sappiamo cosa voglia dire, ma suona bene. Sul senso dell’aforisma, invece, bisognerebbe interrogarsi. Io ci ho provato. In coda al post c’è la mia interpretazione. Ma cominciamo da un fatto vero, un fatto di cronaca.

C’era una volta un ragazzo senza braccia e con una serie di altre disabilità, che un giorno salì sull’Eurostar Bari-Roma. Quel giorno era il 27 dicembre 2009, una settimana fa. Quello che gli fu fatto lo racconta Shulim Vogelmann (scrittore ed editore, testimone e protagonista della vicenda), su La Repubblica.

Molti sono gli aspetti che turbano, leggendo l’articolo. Troppi. Di quello più urgente, la disumanità, spero si occuperà il Padreterno in prima persona più rapidamente possibile. Io, invece, ci metterò del mio condividendo alcune riflessioni.

Tanto per cominciare: cosa testimonia il non-comportamento di coloro che hanno assistito al lungo, lunghissimo, deplorevole episodio? Ho paura che la risposta sia triste e grave: che siamo un popolo, preso nel suo insieme, di poco valore. Al sopruso del potere (di un controllore, in questo caso), reagiamo sempre uguale: con indignazione domestica e pubblica sottomissione. A casa, guardando Le Iene e Striscia la notizia, abbaiamo volentieri contro ogni ingiustizia, ma quando le cose ci succedono davanti, l’azione la lasciamo sempre volentieri a qualcun altro. Occhi bassi e marcia avanti.

La brutta storia del ragazzo senza braccia è esemplare: il debole, in quanto tale, viene schiacciato dal forte, e il popolo tace atterrito sperando che il signor padrone non ne abbia anche per loro. Se poi gli viene chiesto conto dell’abuso, il potere reagisce sùbito con l’intimidazione, e laddove l’abuso sul più debole veniva giustificato grazie al superiore valore del rispetto ferreo della regola, improvvisamente tale valore perde di importanza, perché il rappresentante del potere rifiuta di dare le proprie generalità pur essendo per legge obbligato a farlo.

Questo purtroppo dimostra che noi, gli italiani, abbiamo la vocazione della vittima o del carnefice, ma del cives, purtroppo, no. La protesta è contemplata solo se riconducibile a qualche forma di lotta di campanile organizzata: fascisti e comunisti, laziali e romanisti, terroni e polentoni. Si urla forte, si menano anche le mani, si va in piazza a milioni, ma sempre contro qualcun altro, e ben protetti da quello davanti. A favore di qualcosa e in prima persona, invece, ci si muove sempre malvolentieri.

Forse questa vicenda alzerà un piccolo polverone (ma piccolo piccolo), e ferrovie e polizia avranno così l’occasione di dimostrare un’altra delle nostre caratteristiche nazionali, difendendo i membri della propria famigghia dall’attacco del clan rivale. Il modello della famiglia mafiosa è praticato con successo in tutta la penisola: il figlio, anche se è un mostro, va difeso. Sempre. Perché è piezz’ ‘e core. E il mondo esterno, la società, è un mostro cattivo, che va combattuto senza quartiere, perché ci vuole male. Solo la mamma ci vuole bene. E così crescono gli eterni figghi, che mai saranno cittadini.

Al coro di riprovazione mediatica contro il malvagio capotreno e il poliziotto tiranno, possiamo scommetterci, parteciperanno anche tutti coloro che erano su quell’Eurostar il 27 dicembre. È una vergogna, diranno. Gabibbo, pensaci tu!

Non sono mai stato un qualunquista, ho partecipato a lungo e con entusiasmo al dibattito politico nazionale e per tanto tempo avrei scommesso grosse cifre sulla bontà dei miei concittadini. Ma da quest’osservatorio privilegiato che è Roma si assiste ogni giorno ad episodi di grande e piccola sopraffazione, e si osserva l’incapacità degli italiani di vedersi anche come popolo oltre che come individui, e il loro vizio ormai incancrenito di declinare il potere come privilegio e non come responsabilità. Così, e odio doverlo ammettere, ho lentamente cambiato idea, e quest’ultimo episodio, per me, chiude un cerchio.

Proposte? Mah… forse dovremmo rinominare tutte le piazze intitolate a Garibaldi, rinunciare in blocco al Risorgimento, scrivere all’Austria una lettera di scuse e chieder loro, per favore, di riprenderci, ché tanto da soli facciamo solo casino. E facciamo casino perché siamo poeti, santi e navigatori, ovvero siamo in grado di esprimere grandissime individualità. Ma come popolo siamo pusillanimi, conformisti e profondamente egoisti. È triste, tanto.

ps: spero di rileggermi tra qualche tempo e di potermi accusare di anti-italianismo becero e superficiale. Magari mi additerò e mi dirò: non sei mica diverso, tu. Ma temo (anzi: spero) che così non sarà.