Quando nacqui, nel 1974, il fascismo era finito da 29 anni, e la democrazia regnava sovrana sotto forma di repubblica. C’erano già da tempo maggioranze, opposizioni e presidenti assortiti.

Quando ebbi 15 anni il muro di Berlino fu tirato giù a picconate, e con esso crepò ufficialmente il regime che ci si era nascosto dietro.

Nonostante tutto ciò, da noi fascismo e comunismo sono sempre l’argomento del giorno. E non si tratta di un dibattito storico, ma politico.

Uomini, donne e bambini si dichiarano fascisti o comunisti, cercano altri uomini, donne e bambini che si dichiarano l’altra cosa e gliele danno.

Poi tornano dagli altri uomini, donne e bambini della fazione a cui con orgoglio appartengono, per farsi fare i complimenti e per ripassare insieme le poche, semplici parole d’ordine necessarie per essere dei militanti di serie A. Le pacche sulle spalle che si ricevono dai propri amici, così come le bastonate prese dai nemici, sono la prova evidente della propria ragione (perché è comunque una questione di ragione e torto, come prescritto dalla sindrome di Voltaire).

Ora, il gioco potrebbe sembrare divertente, un innocuo passatempo, o una specie di quintana, le cui regole si trasmettono dai padri ai figli nei secoli dei secoli. Invece di innocuo non c’è un bel niente.

La mia generazione (e quelle prima, e quelle dopo) è stata allevata in un clima delirante in cui il futuro e, ahimè, anche il presente sono condannati ad essere la fotocopia del trapassato remoto. Neppure le persone di intelletto e di cultura hanno capito che si trattava di un gioco al massacro, ed hanno contribuito a tenere in piedi questo tripudio del grottesco.

Il risultato è che noi nati decenni dopo la fine delle ideologie novecentesche, dividiamo ancora il prossimo in ‘amici e nemici’ in base all’appartenenza ad una fazione o all’altra. Come se esistessero due tipi di cervello (entrambi vecchissimi): il cervello ‘A’ e il cervello ‘B’. O hai l’uno, o l’altro. E uno è giusto, l’altro è sbagliato. E tertium non datur.

Ho partecipato anche io a questo gioco che genera chimicamente fazioni laddove ci sarebbero tranquille, allegre combriccole, e che strangola gli individui in un conflitto tra assurda ortodossia e i loro veri sentimenti, e i loro veri pensieri. È un gioco di merda, il cui risultato è sempre uno solo: rabbia. È una rabbia che nasce dalla frustrazione di essere costretti a concimare dei ‘credo’ le cui radici sono avvizzite da un pezzo, e di dover dare la caccia senza sosta a quelli dell’altra parrocchia per fargliela pagare cara. La vacuità di tale misero esercizio di obbedienza intellettuale ti rende per forza violento, perché la tua libertà è nascosta dietro una parete di carta velina, ma tu non sei autorizzato ad oltrepassarla. Quindi, giù botte. Sono le botte che vorremmo dare a noi stessi per punire la nostra stupidità, ma che, per una forma elementare di autoconservazione, finiamo per distribuire agli altri, ai nemici. Un sistema paradossale ma a suo modo perfetto che coinvolge perfino i ventenni, che dovrebbero avere dentro il fuoco del cambiamento, e che invece partecipano alla pantomima chiamando sé stessi ‘rivoluzionari’, senza accorgersi che sventolano bandiere ammuffite. Il nuovo per cui si battono era già vecchio al tempo dei loro genitori. Quanta energia (e dignità) sprecata.

Così mi sono tirato fuori dal giochino. E dal momento stesso in cui l’ho fatto, mi sono sentito bene. Il mio pensiero e le mie azioni potevano finalmente riallinearsi, senza che nessuno avesse il potere di rimproverarmi citandomi il comandamento che stavo violando. Potevo di nuovo pensare, avere opinioni, scegliere i buoni e i cattivi in base ai miei criteri, finalmente insindacabili.

Insomma, sono ormai certo che chi canta certe vecchie canzoni ci avveleni, e rubi alle generazioni future la libertà di pensare, quindi di vivere. Per favore, aiutiamo noi stessi a dire di no. Svegliamoci da quest’incubo. Davvero, è ora.

Foto presa da www.02blog.it

Foto presa da www.02blog.it